Non può essere richiesto il rilascio dell’abitazione se nella ricostruzione del rapporto contrattuale, da una comparazione ponderata tra la concessione del godimento di un immobile ai coniugi in attesa di trovare altra sistemazione abitativa e la possibilità per la comodante di recedere ad nutum, la prima risulta preminente. Questo è il principio espresso dalla Sesta sezione Civile della Corte di Cassazione nella ordinanza n. 26456/11 depositata il 9 dicembre scorso.
Il caso. Lui e lei si sposano e presto avranno dei figli. Però prima che ai bambini bisogna pensare alla casa, problema non di poco conto per le giovani coppie. Fortuna che la madre di lui possiede un appartamento libero, che concede alla giovane coppia in comodato senza determinare la durata. Gli anni passano e i figli nascono. Non tutto scorre per il verso giusto e i rapporti tra i coniugi peggiorano al punto di decidere di separarsi. La madre chiede al figlio e alla nuora il rilascio dell’immobile, ma non lo ottiene e così i tre finiscono davanti al giudice. Il Tribunale dà ragione alla suocera, ma in appello la decisione viene riformata e si arriva così in Cassazione. Nel frattempo, nel corso dei gradi di merito, la casa in comodato viene assegnata alla nuora affinché possa abitarci con i figli.
La durata del contratto di comodato può determinarsi sulla base dell’uso previsto. La richiesta, da parte della madre di lui, di liberare l’immobile, si basa sulla considerazione che, non essendo stato convenuto un termine per il comodato, il comodatario è tenuto a restituire la cosa non appena il comodante la richiede. Tuttavia la durata del comodato, quando non espressamente ancorata dalle parti alla scadenza di un termine, può essere implicitamente determinata dall'uso per il quale la cosa viene consegnata. La Corte territoriale, nella ricostruzione del rapporto contrattuale, ha ritenuto sussistere la destinazione dell’immobile ad alloggio familiare, fattore da considerarsi preminente rispetto alla possibilità per il comodante di recedere ad nutum.
La destinazione dell’immobile a casa familiare è concettualmente incompatibile con un godimento segnato da provvisorietà ed incertezza. Nel motivare la loro decisione, i giudici di secondo grado hanno fatto espresso riferimento alla giurisprudenza della Suprema Corte, che ha più volte ribadito come per casa familiare debba intendersi quel «luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e si svolge la continuità delle relazioni domestiche, centro di aggregazione e di unificazione dei componenti del nucleo, complesso di beni funzionalmente organizzati per assicurare l'esistenza della comunità familiare, che appunto in forza dei caratteri di stabilità e continuità che ne costituiscono l'essenza si profila concettualmente incompatibile con un godimento segnato da provvisorietà ed incertezza».
La Cassazione non ha potuto dunque far altro che rigettare il ricorso anche nella parte in cui, per la prima volta - e dunque in modo inammissibile - si lamenta la mancata considerazione da parte dei giudici di merito delle condizioni economiche dei comodatari.
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