Esistono limiti, anche non cristallizzati, alle cure da prestare al proprio figlio, soprattutto se questo è nella fase di crescita pre-adolescenziale. Se quei limiti vengono superati, difatti, può scattare addirittura il reato di maltrattamenti. A testimoniarlo la storia affrontata dalla Cassazione – con sentenza numero 36503/2011, Sezione Sesta Penale, depositata ieri –, quasi una testimonianza sulla possibilità che l’atteggiamento protettivo di una madre possa degenerare, con ripercussioni negative sul minore.
Sotto una campana di vetro. L’elemento centrale, in questa vicenda, è costituito dall’atteggiamento iperprotettivo tenuto da una madre (assieme al nonno) nei confronti del proprio figlio. L’elenco è presto fatto: «non far frequentare con regolarità la scuola»; «impedire la socializzazione (il minore ha conosciuto suoi coetanei solo in prima elementare)»; «impartire regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico del minore con conseguenti disturbi deambulatori»; «prospettare la figura paterna come negativa e violenta, tanto da imporgli di farsi chiamare con il cognome materno». L’accusa, consequenziale, è quella di maltrattamenti in famiglia. Accusa che viene considerata acclarata prima dal Giudice dell’udienza preliminare e poi dalla Corte d’Appello. Per quest’ultima, in particolare, gli atteggiamenti iperprotettivi vanno qualificati come «eccesso di accudienza», e hanno comportato l’imposizione di «atti riservati all’età infantile, nonché nell’esclusione del minore da attività, anche didattiche, istituzionali», a cui si sono poi aggiunte «deprivazioni sociali (impedimento di rapporti con coetanei) e psicologiche (rimozione della figura paterna)».
Tutte queste condotte, secondo i giudici di Appello, sono state «idonee a ritardare gravemente, nel minore, sia lo sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l’acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione)».
Troppo affetto? Di fronte alla doppia condanna, madre e nonno – che convive con la donna e col ragazzo – propongono ricorso per cassazione, contestando la valutazione dei loro comportamenti verso il minore come maltrattamenti.
Secondo i ricorrenti, difatti, la Corte d’Appello ha finito per «rimodellare la struttura del reato di maltrattamenti» per adattarla a questa vicenda.
Su quali basi questa valutazione critica? Per madre e nonno, si può parlare di «atteggiamenti di iperprotezione e di ipercura, considerati espressione di fenomeni patologici che non possono rientrare nel concetto di maltrattamenti, perché privi di una chiara connotazione negativa». Piuttosto, viene affermato, si tratta di condotte che «nascono come positive e certo ispirate da intenzioni lodevoli, salvo poi riverberare effetti negativi su chi tali condotte subisce a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione».
La sensibilità del minore e degli adulti. In questo quadro, viene anche richiamato lo stato di benessere affermato dal ragazzo, sempre nell’ottica dei ricorrenti, ovviamente. Su questo, però, i giudici di Cassazione riducono il peso di questo elemento, perché il ragazzo, oggettivamente «disafferenziato dai contesti di riferimento (gruppo dei pari di età)», «non può disporre di standard di peso della negativa e deteriore realtà in cui è costretta a vivere». Quindi, è irrilevante lo «stato di benessere del bambino», così come è irrilevante «il grado di percezione del maltrattamento stesso ad opera della vittima minorenne», che «esige efficace tutela anche contro la sua stessa infantile limitata percezione soggettiva».
Per giunta, non si può dimenticare, aggiungono i giudici di piazza Cavour, di trovarsi di fronte a «scelte e stili pedagogici obsoleti, od in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo», né si può ignorare che il reato di maltrattamenti (in famiglia) sottintende un interesse alla «tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone» e al «rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno».
Altrettanto inaccettabile è anche l’osservazione, proposta come elemento del ricorso, di una carenza della «seppur minima consapevolezza» di madre e nonno «di creare disagio» nel minore. In questa ottica, «se è ragionevole ritenere che, inizialmente, la diade madre-nonno possa aver agito in buona fede», isolando il minore nelle «sicure mura domestiche», tale profilo «non aveva più motivo di sussistere, dopo i ripetuti sinergici interventi correttivi di una pluralità di esperti e tecnici dell’età evolutiva e del disagio psichico ed i conformi interventi dell’autorità giudiziaria».
Protezione, ma non troppo... Alla fine di una complessa valutazione, il reato di maltrattamenti viene ritenuto concreto, analizzando gli atteggiamenti tenuti dalla madre e appoggiati dal nonno. Ecco perché il ricorso viene respinto. E con esso si certifica anche la necessità che l’atteggiamento di protezione nei confronti dei minori debba essere compatibile con un loro adeguato sviluppo psico-fisico.
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